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ALL WE IMAGINE AS LIGHT

un film di Payal Kapadia
(India, Francia, Paesi Bassi, Lussemburgo, Italia / 2024 / Drammatico, Sentimentale / 115')

10, 11, 12, 13 febbraio

Gran Premio della Giuria Festival di Cannes 2024

Prabha è un’infermiera nel reparto ginecologico di un caotico ospedale di Mumbai. Tramite un matrimonio combinato ha sposato senza conoscerlo un uomo che subito dopo si è trasferito in Germania. La donna divide un microappartamento con un’infermiera più giovane, Anu, che è innamorata di Shiaz, un ragazzo musulmano inaccettabile agli occhi della sua famiglia indù. La terza protagonista è la città di Mumbai, metropoli sovraffollata “costruita dalle mani della povera gente” e punteggiata da condomini alveari in cui ognuno ha poco spazio per sé, ma coltiva grandi sogni, perché “bisogna credere nelle illusioni, altrimenti si impazzisce.”

Recensione

Le linee di Mumbai compongono il mosaico complesso realizzato dalla Kapabia per esplorare e scoprire la realtà da cui è circondata. Linee mobili, il frenetico disegno in mutazione verso un avvenire ignoto, la città popolata in maniera inverosimile, dove gli abitanti provano a galleggiare sul flusso. Nei suoi cambiamenti speculativi si riconoscono i connotati di un paese difficile da decifrare, privo di verità inconfutabili. La regista vi si approccia con uno sguardo delicato di disincanto, muta e partecipe. Un ulteriore passo avanti rispetto al precedente film A Night of Knowing Nothing, dal quale eredita gli strumenti, la comunicazione testuale e l’attenzione verso i particolari, le fratture, i moti di protesta impercettibile, centrando il fuoco sui passi di due donne, spostate dall’onda di un destino comprensibile soltanto in un’ottica collettiva. Un lavoro nel quale confluisce l’approccio documentaristico intimo dei primi cortometraggi, ampliato e sintetizzato nella somma sinfonica di un ritratto ancora politico dell’India di Narendra Modi. Uno sguardo personale eppure ancorato ai nomi classici del cinema asiatico, dal padre tutelare Ray alle apparizioni fantasmatiche di Wong Kar-wai, a cui si avvicina nella sua leggerezza mai superficiale.

Le storie di Prabha e di Anu sono intrecciate. Prabha è una donna introversa, chiusa nelle proprie emozioni e in un pudore che si manifesta in ogni suo gesto. Anu è giovane, più aperta ed impegnata in una relazione impossibile con Shianti a causa della loro diversa confessione religiosa. È con loro che All We Imagine as Light diventa un film di viaggio, e qui la similitudine porta ovviamente al magnifico Jia Zhang-ke, Caught by the Tides, nel loro continuo muoversi nella città con i mezzi pubblici, confuse nel tramestio di rumori ed esistenze, dalle stanze dell’ospedale fino alle strade che non dormono mai, un viaggio urbano, il tempo che scorre sulle rotaie di un tram  e fugge via inarrestabile verso la notte e si confonde con le luci che baciano il buio. Alle due donne si aggiunge Parvati, cuoca dell’ospedale, una vedova rimasta dopo anni senza casa, e che decide di tornare al villaggio natale, vicino al mare ed alle sue origini. Così il viaggio si sposta verso la costa, al traffico si sostituisce lo sciabordio delle acque, e in mezzo alla natura lussureggiante l’arco narrativo trova la sua definizione.

L’amore mancato, l’amore impossibile, l’amore sepolto in una bara, l’amore agognato, l’amore unica risposta possibile alla morte. All We Imagine as Light è anche questo, o forse è soprattutto questo. Problema e rimedio, il punto fermo attorno a cui tutto ruota. Un film che per la regista indiana dimostra già una maturazione ed una conferma, risulta originale ed autentico, ancora spontaneo e pieno di curiosità ed apprensione. Riflette in un discorso storico e sociologico l’India contemporanea e la riporta nel concorso principale di Cannes, dove era assente dal 1994, quando a calcare il tappeto rosso fu Swaham di Shaji N. Karun.

Antonio D’Onofrio, www.sentieriselvaggi.it