BLOW-UP
Venerdì 06 ottobre
ore 19 e 21.30
Il primo film in lingua inglese di Michelangelo Antonioni, tratto da un racconto di Cortázar. La swinging London, magnificamente esaltata dalle invenzioni cromatiche di Carlo di Palma, le mode giovanili, la musica e la contestazione, servono ad Antonioni per mettere in scena l’avventura di uno sguardo.
Una fotografia scattata per caso rivela, ingrandita, le presunte tracce di un delitto. E l’incapacità dell’uomo contemporaneo, e dell’artista, di far presa sul reale.
“Blow-up è un film che si presta a tante interpretazioni, perché la problematica cui si ispira è appunto l’apparenza della realtà. […] L’esperienza del protagonista non è né sentimentale né amorosa, riguarda piuttosto il suo rapporto con il mondo, con le cose che si trova di fronte. È un fotografo.
Un giorno fotografa due persone al parco, un elemento di realtà che sembra reale. E lo è. Ma la realtà ha in sé un carattere di libertà che è difficile spiegare.
Questo film, forse, è come lo Zen: nel momento in cui lo si spiega lo si tradisce.” (Michelangelo Antonioni)
Restaurato da Cineteca di Bologna, Istituto Luce – Cinecittà e Criterion, in collaborazione con Warner Bros. e Park Circus presso i laboratori Criterion e L’Immagine Ritrovata, con la supervisione del direttore della fotografia Luca Bigazzi
Scheda tecnica
Titolo Originale
Blow-Up
Regia
Michelangelo Antonioni
Paese, anno
Gran Bretagna,1966
Genere
Drammatico
Durata
111'
Sceneggiatura
Michelangelo Antonioni, Edward Bond, Tonino Guerra
Fotografia
Carlo De Palma
Colonna sonora
Herbie Hancock
Montaggio
Frank Clarke
Interpreti
David Hemmings, Sarah Miles, Vanessa Redgrave, Jane Birkin, Peter Bowles, John Castle
Recensione
Ho visto già due volte Blow-up, e credo non soltanto che sia un capolavoro, ma, almeno per adesso, il capolavoro di Antonioni. Blow-up sarà campione insuperabile, indipendentemente dal verdetto dei giurati di Cannes. È un’opera personalissma, di un regista unico e profondamente individualista come Antonioni. […] Antonioni non è mai stato, nemmeno agli inizi della sua produzione, un artista provinciale, e nemmeno, se Dio vuole, nazionale, ma, staccandosi dai nostri modi allora trionfanti del neorealismo italiano o romanesco, dimostrò subito l’altezza, la tendenza fortemente lirica ed astrattiva della propria ispirazione, e, insomma, la propria natura modernissima e internazionale. Antonioni era internazionale anche col Deserto rosso, e anche con Il grido. Anche quando girava nei paesi suoi, e anche quando, faccio per dire, parlava in dialetto. Figuariamoci adesso, che dal ferrarese è passato al cockney.
(Mario Soldati, “L’Espresso”, 7 maggio 1967)
Non siamo più all’idea del mondo sommerso e divorato dalle cose, rappresentata da opere d’arte recenti, e da Antonioni stesso in un altro suo film. Nemmeno la cosa c’è più. Il mondo si è vaporizzato. Il protagonista si perde dentro la selva delle immagini. E tutti, intorno a lui, dappertutto dove entra, si comportano come figure riflesse che sciamano, senza nessun puntello, né oggettivo, né soggettivo. Tutto è messo in dubbio, anche i fatti. […] Qui il mondo è veramente esploso: nulla dice che vi sarà un dopo differente. La scoperta dell’irrealtà del mondo, il liquefarsi di soggetto e oggetto, per quanto sappiamo dal film, può essere definitiva; scomparse le illusioni, forse è l’unica forma possibile di verità.
(Guido Piovene, “La fiera letteraria”, 12 ottobre 1967)
Blow-up vuol dire esplodere, ma eventualmente anche enfiare, e poiché enfiandosi un corpo ingrandisce, in gergo fotografico è usato per ‘ingrandimento’. […] È così che Thomas (l’aderentissimo, calibratissimo David Hammings), giovane fotografo londinese di gran successo, specializzato nei servizi di moda, nell’ingrandire certi rotoli scattati in un parco dell’East-End, intravede confusamente qualcosa di impressionate. […]
Se Antonioni pone al centro del suo racconto questo nodo giallo, non sarà per seguirlo nei suoi sviluppi e sino alla sua soluzione poliziesca. […] Quello che importa ad Antonioni non è il cadavere, né il delitto. È la spinta di rottura che quella fantomatica avventura ha sui nervi e sul personaggio di Thomas, preso come paradigma di una particolare esperienza e modo di vita. È il mondo delle generazioni giovanissime che tentano l’affascinante esperienza di ripartire da zero, di bruciare in sé stessi gli schemi, i pregiudizi, i tabù delle generazioni precedenti.
(Filippo Sacchi, “Epoca”, 15 ottobre 1967)
L’occhio di Antonioni è uno strumento miracoloso che domina e anima la macchina da presa. L’occhio di Antonioni, fin dal suo primo documentario Gente del Po, non ha mai riprodotto pedetramente la realtà, ma l’ha sempre vivificata conferendole un segno di più. Dai cumuli di immondizia di N.U. all’isola dell’Avventura, dal finale dell’Eclisse al mare rugginoso e alle foreste color ferro di Deserto rosso, questo segno si è dilatato fino a confondere il vero con l’immaginario e, addirittuta, il presente con il futuro. Blow-up è prima di tutto un grande documentario sulla Londra post-vittoriana e sulla gioventù londinese […]. Ma Blow-up può anche essere avvicinato ad alcuni film di un altro ‘mago del cinema’, ovverosia a due opere di Hitchcock e, precisamente, a La finestra sul cortile (per certe analogie tematiche) e a Vertigo per affinità stilistica. Solo che Hitchcock, alla fine, resta schiavo dei suoi congegni, che sono i meccanisimi della ‘Detective Story’, mentre Antonioni si avvale di un cadavere che c’è e non c’è in un parco di Londra, non per risolvere un indovinello, ma per riflettere e far riflettere sull’interazione tra reale e il fantastico. In questo sta la sua superiorità sul ‘maestro del brivido’.
(Callisto Cosulich, “ABC”, 15 ottobre 1967)
Thomas, fotografo, dopo una notte trascorsa a ritrarre i poveri in un ospizio, torna nel suo studio per dedicarsi a un servizio di moda. Durante una pausa si sofferma in un parco deserto, e con l’immancabile macchina fotografica ritrae una scena in cui ‘non accade nulla’. Solo dopo aver sviluppato le foto Thomas inizia a notare piccoli dettagli. Forse ha fotografato un omicidio. C’è come un elemento oggettivante in tutto ciò che fa Thomas. Per lui la povertà è solo uno spettacolo. Un servizio di moda con la splendida Veruschka è un atto sessuale simulato, meccanico, che però forse contribuisce a mettere in luce una verità segreta della fotografia. La sua particolare emozione appartiene, come forse tutte le emozioni, a una fragile meta-realtà. Perfino l’omicidio può essere una semplice routine.
Il mistero della vita e del cinema si esaspera nella sequenza dell’ingrandimento. Fino a che punto Thomas ha rinunciato alla cosa più importante, la vita stessa? La donna del parco si presenta nel suo studio, ma in carne e ossa è per certi versi meno reale che nei densi frammenti temporali che affiorano sulla pellicola sviluppata. L’immagine ingrandita all’estremo svela un momento ormai scomparso che però assorbe completamente l’interesse di Thomas. Ben presto la ‘sola’ verità della donna sta in queste immagini. L’uomo, ‘l’assassino’, non si concretizza mai fino a questo punto. Di lui ci sono solo un paio di fotografie. Presto scivola irrecuperabilmente nel regno delle immagini, la ‘zona’ di Orfeo di Jean Cocteau.
Le serie di immagini, primi piani e campi lunghi è un’avventura nel tempo. Il fotografo è un enigma, un sorprendente punto di collegamento tra definizione precisa e fantasia. La macchina fotografica raggiunge l’apice dell’obiettività: è la sola testimone di un crimine, e dunque il solo punto di contratto con il mondo esistente. Allo stesso tempo, la fotografia offre la miniatura ironica di un mondo governato dall’ambiguità, dalla precarietà e da un senso d’alienazione quasi ridicolo. Sono questi il paradosso e la ‘narrazione’ in cui entra il fotografo interpretato da David Hemmings.
(Peter von Bagh, Rikoksen hehku [The White Heat of Crime], 1997, a cura di Antti Alanen)
Sembra che al regista interessi sperimentare la tenuta dei temi a lui cari ‒ a cominciare da quello
dell’impossibilità per l’uomo e l’artista (fotografi, registi, reporter) di comprendere il mondo
‒ dentro nuovi scenari della modernizzazione. In questo senso, il film sembra possedere una prima parte molto descrittiva, quasi erratica, dove il figurativismo di Antonioni si lascia guidare
ritmicamente e formalmente da questo universo innovativo, con lo stesso stupore critico che sarà in Zabriskie Point (1970); mentre successivamente, quando viene impostato il ‘giallo’ della
fotografia, la riflessione filosofica e teorica si fa evidente. In Thomas, il protagonista, Antonioni
indica la fallacia dello sguardo dell’uomo di fronte a una realtà inconoscibile. E il fatto che
Thomas sia un artista aggrava la sensazione di impotenza dell’occhio e della razionalità. La
fotografia che man mano viene ingrandita ‒ attraverso progressivi blow-ups, appunto ‒ svela nuovi particolari, inquietanti, dolorosi. Eppure, nulla ottiene una vera spiegazione, l’investigazione di Thomas si arena nel vuoto, e ‒ in uno dei finali più famosi del cinema d’autore ‒ egli finisce col mimare una partita a tennis senza racchette o palline. Segno dell’avvenuta sostituzione della realtà da parte della rappresentazione, in un mondo in cui l’oggettività fotografica scopre la nostra debolezza, senza al contempo garantire la comprensione della vita che ci circonda.
(Roy Menarini, Blow-Up, Enciclopedia del Cinema Treccani, 2005)
Fonte: Il Cinema Ritrovato
Michelangelo Antonioni
Michelangelo Antonioni (Ferrara, 29 settembre 1912 – Roma, 30 luglio 2007) è considerato uno dei massimi autori del dopoguerra, tra difficoltà produttive e malgrado l’incomprensione del pubblico ha ottenuto il riconoscimento internazionale con Il grido (1957) e L’avventura (1960), quest’ultimo vincitore del premio speciale della giuria al Festival di Cannes.
Sono seguiti La notte (1961), L’eclisse(1962), premio speciale della giuria al Festival di Cannes, e Deserto rosso (1964), Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia. A partire da Blow-up (1966), vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1967, e Professione: reporter (1975), girati in lingua inglese, ha approfondito la ricerca di innovazioni formali, nel tentativo di rappresentare, non solo narrativamente, i conflitti dell’individuo alle prese con una realtà sempre più inafferrabile.