BOY FROM HEAVEN
Adam è figlio di un pescatore analfabeta ma ha sempre amato leggere e studiare. Il ragazzo ottiene una borsa di studio per l’Università Al-Azhar de Il Cairo. Poco dopo l’arrivo di Adam il Grande Imam che dirige Al-Azhar muore, e si pone il problema della sua successione. Il candidato naturale sarebbe un anziano Imam cieco di grande profondità spirituale, ma il Presidente della Repubblica egiziano gli preferisce un altro leader. Incaricato di vigilare sulla transizione alla testa dell’ateneo per conto del governo è il Colonnello Ibrahim, ambigua figura di grande abilità strategica, che non disdegna mezzi di persuasione anche assai poco leciti. E in mezzo a questo crocevia finirà proprio Adam, come recluta innocente.
Recensione
Per la prima volta in Concorso a Cannes, il cinquantenne Tarik Saleh con Boy from Heaven si conferma talentuoso regista e brillante sceneggiatore in grado di padroneggiare abilmente le strutture classiche dello spy movie e del thriller inserendoli in un contesto molto peculiare: la Moschea e Università islamica di Al-Azhar de Il Cairo, tra esegeti del Corano e studenti ammessi per diventare Imam. Senza mezzi termini, senza giri di parole. Senza dubbi. Girato in Turchia così come Omicidio al Cairo era girato in Marocco e Tunisia, Boy from Heaven è a tutti gli effetti un sano, robusto, film politico “vecchio stile” in cui un uomo qualunque e semplice (in questo caso uno studente) si ritrova per caso in un intrigo molto più grande di lui da cui apprenderà che la corruzione è devastante, la libertà non esiste in nessun ambito, tutti in Egitto possono essere usati, spiati, manipolati e magari poi uccisi in nome del potere. Il plot si sviluppa per progressive prove e ostacoli che Adam deve superare per salvare la pelle, per cerchi concentrici che si allargano sempre di più coinvolgendo tutto e tutti e in cui tutto e tutti lottano o per sopravvivere o per raggiungere degli obiettivi senza neppure più comprendere, individualmente, per quale ragione le macchinose strategie vengano messe in campo se non per assecondare i vertici supremi dello Stato o opporvisi per guadagnare terreno.
L’ipocrisia regna sovrana, le parole sono puramente retoriche e una scelta libera può costare un rischio incommensurabile. Nell’elaborazione di canoni già noti, Saleh riesce egregiamente a strutturare un romanzo di “deformazione” politicamente netto e ardito, se si pensa al tema, e che coinvolge nella sua critica sistemica anche l’istituzione religiosa. La regia insiste nell’inquadrare grandi cartelloni con al-Sisi ai bordi delle strade, le sue foto giganti nelle stanze dell’amministrazione e gioca anche con le tonalità del grottesco nelle scene d’insieme.
Aleggia spesso un sentore di surrealtà che esprime il non senso di un potere reattivo e stupido, autoritario e stolido, nemico della verità, della giustizia, delle persone. Nella progressiva discesa infernale cui ci porta la storia, il regista si ferma un attimo prima di mostrare ciò che, nei fatti, accade quando uno è nel posto sbagliato al momento sbagliato o non serve più al sistema che lo ha incastrato: Saleh ci fa vedere le galere dove vengono detenuti i prigionieri politici o quelli che, semplicemente, sono diventati grattacapi per la dittatura, ma decide di non entrare in territori che inquadrino torture e violenze, cui però si allude a più riprese.
Una scelta assolutamente legittima, ma che fa restare ineluttabilmente Boy from Heaven nel novero del thriller politico che non urta troppo la sensibilità degli spettatori. Difficile, vedendo il film, non pensare al caso Regeni. E a tutti i sequestrati, torturati, uccisi, in un Paese dove “la Sfinge ha ripreso a sorridere” e il turismo è tornato, un Paese che dopo il caos della falsa primavera e la minaccia per l’Occidente della Fratellanza musulmana, è finalmente stabile. Grazie a una bella dittatura militare.
Elisa Battistini, www.quinlan.it