DIVORZIO ALL’ITALIANA
(Commedia/ Italia / 1962 / 120’)
Venerdì 7 febbraio – ore 20.30
Sabato 8 febbraio – ore 16.00
Il barone Cefalù s’invaghisce della bella cugina e per averla spinge la moglie fra le braccia di uno spasimante. Potrà così ucciderla con una pena simbolica invocando il ‘delitto d’onore’. Dietro la farsa grottesca, il più moralista (nell’accezione più alta del termine) dei registi italiani imbastisce un feroce atto d’accusa nei confronti di una pratica medioevale allora ‘tollerata’ dal nostro codice penale. Mastroianni – che Germi riteneva inadatto al ruolo dopo i fasti della Dolce vita – è strepitoso nei panni dell’impomatato nobiluomo siciliano, di cui inventa un tic che diventerà leggendario.
Con tre nomination e un Oscar per la miglior sceneggiatura, divenne un successo internazionale ispirando il nome del filone della commedia all’italiana.
Recensione
Divorzio all’italiana doveva inizialmente essere un film drammatico, ispirato al romanzo di Giovanni Arpino “Un delitto d’onore”. Il tema centrale era proprio quello dei delitti d’onore (in quegli anni erano circa più di mille all’anno). Alfredo Giannetti, che insieme a Ennio De Concini e allo stesso Germi ne scrisse il soggetto, ebbe l’idea di trasformare il tutto in una commedia dai contorni grotteschi e neri, muovendo così un forte atto d’accusa verso l’art. 587, figlio di un codice penale antico e fuori tempo. In fondo, un testo di legge che autorizza il delitto d’onore con una pena simbolica, non può che prestarsi all’irrisione.
La storia è ambientata nell’immaginaria Agromonte in Sicilia (Ispica, nella realtà) e viene raccontata dalla voce fuori campo dello stesso protagonista, il barone Ferdinando Cefalù (Marcello Mastroianni, candidato all’Oscar come miglior attore protagonista), detto Fefè, attraverso un lungo flashback che ci accompagna per tutto il film. I personaggi che si muovono intorno alla vicenda sembrano pupi siciliani, marionette che rimangono rigide nei propri cliché (in primis il barone stesso, con i suoi capelli lucidi di brillantina). Il barone non è altro che un uomo che non sa amare, essendo profondamente egoista: è sposato da quindici anni con Rosalia (Daniela Rocca) e non sopporta più la sua morbosità, tanto da sentirne quasi repulsione fisica. Il tormentone di Rosalia (“Fefè, dove sei?”) diventa un tarlo che lo rende esasperato della vita famigliare, se non fosse per la cugina più giovane (Stefania Sandrelli) di cui è segretamente innamorato. Da qui il progetto di far fuori la consorte, cercando di mettere in scena un delitto d’onore. Don Fefè si muove come un regista: cerca un attore che possa interpretare l’amante (uno splendido Leopoldo Trieste), un registratore per immortalare il tutto e una scenografia adeguata. Alla fine riuscirà nell’impresa, salvando così “l’onore”.
La vicenda non è nuova, ma la rivoluzione stilistica è cominciata: lontano anni luce dalla linearità del dramma neorealista, con questa pellicola Pietro Germi si libera da un’armatura formale e gira con grande libertà e violenza di stile come mai aveva fatto. Il flashback, il montaggio frenetico di alcune scene, la sospensione della voce fuori campo con ripresa successiva del filo del discorso, l’uso del sonoro per caratterizzare alcuni momenti (si pensi all’urlo del venditore ambulante che penetra in casa), i sogni assassini di Mastroianni che interrompono la storia come spot, l’accelerazione delle scene (la corsa del barone per azionare il registratore che poi riavvolge all’indietro, così anche le immagini impresse del film) sono tutti elementi nuovissimi nel suo cinema.
La Sicilia di Germi è descritta come un mondo ancestrale e radicato su regole e riti arcaici che si perpetuano di generazione in generazione. Dal continente giungono lontani echi di modernità e cambiamento (i balli moderni, il deputato del PCI che indaga sulla condizione della donna), ma non riescono a far breccia nella chiusa comunità di Agromonte. Al di là delle connotazioni tipicamente siciliane come l’onore, le corna, il dialetto, il folklore, i mandolini, questa rappresentazione caricaturale porta però i connotati di un intero Paese ancora legato a una legislatura anacronistica e all’influenza della Chiesa in ogni ambito della vita sociale e politica. Emblematica la figura del parroco che invita i fedeli a votare liberamente, secondo coscienza, un partito “democratico e cristiano”. Germi utilizza questa caricatura per mettere a nudo il maschilismo, la retorica forense e la bigotteria di gran parte d’Italia e lo fa con lo strumento della commedia. P
Con “Divorzio”, Pietro Germi ha fatto nascere la commedia all’italiana: l’enorme successo ottenuto farà nascere altri film “all’italiana” (ci saranno “Amore”, “Matrimonio”, “Adulterio”), ma nessuno di questi raggiungerà vette così alte. Il barone Cefalù rimane così una maschera unica e inimitabile con quei capelli impomatati di brillantina, il bocchino e il tic della bocca. Mastroianni offre una delle interpretazioni migliori della sua carriera, ispirata alla figura dello stesso Germi permettendogli così di “apparire” anche nella sua opera più importante.
Alessandro Corda, ondacinema.it