DOGMAN
25, 26, 27 settembre
In una periferia sospesa tra metropoli e natura selvaggia, dove l’unica legge sembra essere quella del più forte, Marcello è un uomo piccolo e mite che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo modesto salone di toelettatura per cani, l’amore per la figlia Alida, e un ambiguo rapporto di sudditanza con Simoncino, un ex pugile che terrorizza l’intero quartiere. Dopo l’ennesima sopraffazione, deciso a riaffermare la propria dignità, Marcello immaginerà una vendetta dall’esito inaspettato (dal pressbook ufficiale).
Scheda tecnica
Titolo Originale
Dogman
Regia
Matteo Garrone
Paese, anno
Italia,2018
Genere
Drammatico
Durata
120'
Sceneggiatura
Ugo Chiti, Massimo Gaudioso, Matteo Garrone
Fotografia
Nicolai Brüel
Colonna sonora
Michele Braga
Montaggio
Marco Spoletini
Interpreti
Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Alida Baldari Calabria, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi
Recensione
“Chi fa di se stesso una bestia, si sbarazza della pena di essere uomo”. Con questa citazione di Samuel J. Johnson, saggista, biografo e lessicografo britannico, autore nel 1755 del prestigioso Dictionary of the English Language, si apriva Paura e disgusto a Las Vegas, il reportage culto di Hunter S. Thompson sulla morte del sogno americano nell’America del post-sessantotto. Secondo la leggenda, la citazione rievocherebbe il parere che l’accademico britannico diede a una signora che gli chiedeva perché un uomo, ubriacandosi, facesse di sé una bestia.
La risposta di Johnson, tanto spiazzante quanto carica di pietas verso l’animo umano, potrebbe rappresentare anche l’incipit de Il canaro di Matteo Garrone — titolo internazionale Dogman —, favola macabra scritta a partire da un vecchio fatto di cronaca (quella del “canaro della Magliana”, ma precisa il regista che la scintilla ispiratrice del film sono le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij: il protagonista, uomo incompleto e incompiuto, viene urtato per strada da un ufficiale che non si scusa, forse neppure se ne accorge. Lui allora prepara la vendetta), splendida nel suo squallore, dove la presenza canina è allegoria della parte bestiale dell’uomo. Come ben sapeva Dostoevskij, impareggiabile narratore di quel che agita l’animo umano, non sempre il comportamento degli individui è dettato dalla razionalità perché talvolta ad avere la meglio è la spinta della propria natura.
Il film racconta la vita di un uomo fragile, Marcello — magnificamente interpretato da Marcello Fonte, Palma d’oro a Cannes come miglior attore protagonista —, fatalmente attratto dalla forza che a lui manca. Marcello avverte la fascinazione per la violenza, e al contempo ne è spaventato. In lui, inoltre, si avverte forte la necessità di essere amato, di far parte di una comunità. Queste spinte interiori contrastanti si concretizzano perfettamente nel rapporto di amicizia e sudditanza intrattenuto con Simoncino, ex-pugile che terrorizza il quartiere di periferia dove Marcello lavora come toelettatore di cani. Un posto squallido tra degrado e abbandono come tanti visti al cinema, solo che qui è spogliato di qualsiasi risvolto sociologico o cronachistico grazie al bel lavoro di fotografia del direttore Nicolai Brüel. Del resto, come affermato dal regista stesso, l’intento era di raccontare una storia universale, ossia l’eterna lotta del debole contro il forte, e di far emergere il rapporto tra vittima e carnefice, in una spirale di violenza anzitutto psicologica.
A scanso di equivoci: la violenza, quella fisica, nel film c’è e si vede. Sotto questo profilo, Marcello Fonte risulta straordinario: con la sua vocetta e le movenze alla Buster Keaton trasuda sensibilità e incarna una tenerezza quasi femminile, mentre il folle energumeno del quartiere (interpretato da Edoardo Pesce) ha il physique du rôle per terrorizzare e smuovere l’empatia del pubblico nei confronti del debole che non trova via d’uscita.
Ciò detto, il film diverte anche per alcuni siparietti comici: Marcello convive con un cane e con lui condivide la cena, spartendosi letteralmente i maccheroni, uno a te e uno a me; molti cani di razza — tra i quali svetta uno splendido alano arlecchino — si recano nel suo tugurio per farsi agghindare, pettinare e limare le unghie per i concorsi di bellezza; per non parlare dell’irresistibile mugolìo di soddisfazione di un gigantesco molosso massaggiato da Marcello nella scena iniziale — pochi istanti prima questo enorme molosso era una furia che squarciava lo schermo con le proprie fauci, ringhiando e latrando in maniera agghiacciante. Eppure, in pochi secondi, qualcosa d’improvviso è scattato nell’animale: il cane sembra mettersi all’ascolto di quella sottile vocetta d’uomo e il digrignare dei denti è sostituito dal mugolìo soddisfatto per la toelettatura.
Con quest’incipit impeccabile che compendia a livello allegorico il nucleo essenziale del film, Garrone mette in scena un western metropolitano che fotografa due tendenze estreme della razza umana: da un lato la pulsione del desiderio e del riscatto, dall’altro la sottomissione dell’uomo e la difficoltà ad interagire con un mondo che tenta — letteralmente — di azzannarlo.
Giulia Dal Santo