FIORE MIO
(Documentario / Italia / 2024 / 80’)
Venerdì 17 gennaio – ore 20.30
L’esordio alla regia dello scrittore del romanzo Le otto montagne
Quando nell’estate del 2022 l’Italia viene prosciugata dalla siccità, Paolo Cognetti assiste per la prima volta all’esaurimento della sorgente della sua casa a Estoul, piccolo borgo posto a 1700 metri di quota che sovrasta la vallata di Brusson. Questo avvenimento lo sconvolge profondamente, tanto da far nascere in lui l’idea di voler raccontare la bellezza delle sue montagne, e in particolare del Monte Rosa, minacciate dal cambiamento climatico. Una narrazione intima, introspettiva e mai scontata, non solo di luoghi geografici, ma soprattutto di luoghi del sentire.
ALTITUDINI – luoghi | storie | sguardi
In collaborazione con Trento Film Festival e Club Alpino Italiano – sezione di Schio
Ingresso ridotto per i Soci CAI
Recensione
Le immagini della natura alpina si accompagnano a considerazioni relative al cambiamento climatico: si tratta di ragionamenti scaturiti dall’esperienza diretta e legati indissolubilmente all’hic et nunc, all’essere in quel preciso luogo e in quel determinato istante. Al centro di Fiore mio sta dunque l’individuo e la sua relazione con ciò che lo circonda fondata sui sensi e, in particolare, su tatto, vista e udito. Un rapporto determinato dall’esperienza di ciò che lo circonda, sia esso l’ambiente in cui camminare, l’acqua da gustare mentre sgorga vergine dalle rocce, o le persone che incontra e con cui colloquia, mangia e si avventura nel bellissimo paesaggio che li attornia. L’autore offre allo spettatore esattamente ciò che lui stesso compie: un’esperienza di profonda condivisione, quasi panica, con la realtà, indifferentemente dal fatto che questa sia composta da paesaggi, suoni, esperienze o persone. Anche queste ultime sono intese come parte dell’ambiente: i personaggi vengono infatti raccontati principalmente tramite i loro corpi e gesti, dove quest’ultimo concetto definisce «sia un movimento corporeo legato all’espressione di un affetto, un’emozione, un sentire, sia un atto operativo e performativo, che costituisce una modalità di manipolazione della materia» (Grespi).
Quella del regista è quindi una vis tattile di appropriazione del mondo: toccando le cose le concretizza e le rende vere, dando luogo ad un processo conoscitivo della realtà di tipo aptico, basato sulla ripresa letterale dell’etimologia greca del termine, cioè “capace di entrare in contatto con”. In quanto funzione della pelle, l’aptico, derivato dal tatto, costituisce dunque il mutuo contatto tra noi e l’ambiente, entrambi ricettori e portatori di un’interfaccia comunicativa» (Bruno 2006, p. 6). A questo stesso fine compartecipano anche la vista (ovviamente, trattandosi di un film) e l’udito, a cui è data parimenti grande importanza: ampio rilievo è attribuito ai suoni naturali, come il vento, il rumore del terreno sotto i passi, l’ansimare di Laki (il cane inseparabile del regista), lo scroscio dell’acqua e, più in generale, i vari rumori dell’ambiente circostante. A questi suoni si uniscono le bellissime musiche di Vasco Brondi, che tuttavia non si sovrappongono ai suoni naturali fino a eliminarli, tranne nelle scene di intermezzo fra i capitoli: non a caso, dato che anche questo espediente viene usato per segnalare la natura divisoria di queste brevi sequenze.
All’ottima riuscita di Fiore mio contribuisce anche l’attenzione alla forma, in particolare alla fotografia e alla regia: quest’ultima si divide fra il montaggio formale (presente, come già specificato, negli spazi che inframmezzano i capitoli) e un altro lineare e narrativo, dedicato ai dialoghi fra i personaggi e alle loro peregrinazioni. Anche la fotografia si caratterizza per la stessa duplicità: una naturalistica, realizzata tramite la macchina a mano talvolta tremolante che segue gli incontri e le conversazioni delle persone, in cui viene privilegiata la spontaneità della luce e della composizione, si alterna a un’altra caratterizzata da grande cura formale, presente in particolare nelle scene in cui la macchina da presa si dedica al maestoso paesaggio alpino, dunque nelle inquadrature prive di personaggi o nelle quali questi sono ripresi da molto lontano. In questi casi, la fotografia è attenta a costruire geometricamente le immagini: spesso utilizza degli elementi naturali per incorniciare le persone. Per opposizione, le scene che inframmezzano i vari capitoli del film, in cui vediamo Cognetti riempire d’acqua il bicchiere di legno, sono costruite ricorrendo alla tecnica opposta a quella appena descritta, cioè alla disposizione degli elementi dell’inquadratura (in questo caso il protagonista e il bicchiere) nel centro dell’immagine. Anche questa differenza stilistica contribuisce a rimarcare l’importanza del tema ambientale relativo all’acqua e, per estensione, ai ghiacciai alpini, centrale in Fiore mio.
Francesco Cianciarelli, fatamoraganweb.it