FOREVER YOUNG
I fantasmi personali del cinema di Valeria Bruni Tedeschi escono di nuovo dal riavvolgimento del nastro del tempo e piombano a metà degli anni ’80 quando l’attrice e regista aveva circa 20 anni. È più o meno l’età che hanno Stella, Victor, Adèle ed Etienne, alcuni degli allievi della scuola di teatro Les Amandiers di Nanterre a Nanterre, diretta da Patrice Chéreau, che stanno facendo le prove per portare in scena Platonov di Čechov. Il palcoscenico diventa una seconda casa. Lì si intrecciano la passione per il teatro, gli amori personali, e un tragico evento all’orizzonte. Bruni Tedeschi, nel suo quinto lungometraggio dietro la macchina da presa, si butta senza paracadute nella sua storia che le appartiene non solo a livello cinematografico e personale, ma rappresenta la sua immagine allo specchio di quegli anni. Gli anni ’80 di Forever Young appaiono impermeabili: l’assegnazione dei ruoli in Platonov, le corse in una vecchia Giulietta Alfa Romeo rossa, il poster in stanza di Taxi Driver e l’esterno del teatro dove la vita che c’è lì fuori fuori (le ombre dell’AIDS, Chernobyl) fa davvero paura. Ma è il corpo di Stella (ottima Nadia Tereszkiewicz) che diventa il suo doppio, proprio la volta in cui non recita per la prima volta in un suo film diretto come regista ma dove la sua presenza è dappertutto. Ci sono tutti i segni di un lutto forse soltanto ora in via di rielaborazione evidente in un grido ancora incontrollato nella propria villa di cui si sente di nuovo l’intensità e di una scomparsa che lascia ancora una ferita aperta come quella di Patrice Chéreau, interpretato da Louis Garrel, con cui la cineasta ha attraversato un pezzo di vita decisivo nella sua formazione e da cui è stata diretta su grande schermo in Hôtel de France del 1987 dopo una versione teatrale proprio al Théâtre des Amandiers.
Recensione
Certo, possiamo tirare ancora in ballo Assayas, Desplechin, Téchiné nel quadro di un cinema francese che cerca con ogni mezzo di scappare dal tempo che passa e che vorrebbe restare giovane per sempre. Ma Forever Young viene fuori dalle viscere di Valeria Bruni Tedeschi e non gliene importa nulla quando inciampa, vuole per un attimo abbandonare la sua strada per mandare tutti a quel paese e poi provare a rialzarsi e ricominciare. Non c’entra solo l’autobiografismo. Ci si trova davanti a un film che potrebbe cominciare come Chorus Line dove al posto di Michael Douglas c’è Louis Garrel. C’è chi ce la fa, chi viene scartato e rinuncia ai suoi sogni. Ma no, non è quello di cui parla Forever Young o almeno non soltanto. Parla delle storie che sono soltanto nostre, che ci si attaccano addosso e che segnano il nostro passato e come siamo oggi. Bruni Tedeschi eredita da Chéreau e da (tanto) cinema francese la capacità di costruire una tragedia con i suoi punti focali (segni premonitori, incidente allarmante, epilogo) che stavolta ha nel sangue. Foverer Young si porta dietro un pezzo di ognuno delle sue opere precedenti da regista, a cominciare da È più facile per un cammello…. Avrebbe potuto dirigerlo anche come primo film. L’ha fatto probabilmente al momento giusto. Per il modo in cui non gira ma vive ogni scena, per come sta aggrappato alla vita con tutte le sue forze, è il suo film più bello e quello che ci si porterà dietro per un po’.
Simone Emiliani, www.sentieriselvaggi.it