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HAPPY END

un film di Michael Haneke

30, 31* gennaio, 01 febbraio 2018

Proiezione del 31/01 ore 22.15 in versione originale sottotitolata in italiano.

 

Il signor Georges Laurent, anziano e autorevole capofamiglia, ridotto su una sedia a rotelle dopo un tentativo di suicidio andato male, decide di raccontare alla nipotina, in verità ben poco amata, le vicende del proprio passato.
Le narrerà della bella storia d’amore vissuta con la moglie che, a un certo punto della vecchiaia, si ammalò fino a perdere completamente l’autosufficienza…

 

Ritroveremo la voce e il volto di Jean-Louis Trintignant — già indimenticabile protagonista di Amour — e certi temi ricorrenti che, intrecciando i fili del discorso narrativo del cinema di Michael Haneke, ricollegano l’una all’altra ciascuna delle sue opere.

Scheda tecnica

  • Titolo Originale

    Happy End

  • Regia

    Michael Haneke

  • Paese, anno

    Francia, Austria, Germania,2017

  • Genere

    Drammatico

  • Durata

    110’

  • Sceneggiatura

    Michael Haneke

  • Fotografia

    Christian Berger

  • Colonna sonora

    -

  • Montaggio

    Monika Willi

  • Interpreti

    Isabelle Huppert, Jean-Louis Trintignant, Mathieu Kassovitz, Fantine Harduin, Franz Rogowski, Laura Verlinden, Toby Jones, Hassam Ghancy, Nabiha Akkari

Recensione

“Happy End” è ambientato a Calais, nel nord della Francia, una città di 75mila abitanti in cui vive la famiglia Laurent. Più che un normale nucleo familiare, si tratta piuttosto di una dinastia decaduta quella che, oltre al vecchio Georges, annovera anche i suoi due figli, Anne e Thomas (rispettivamente Isabelle Huppert e Mathieu Kassovitz), il marito e il figlio di Anne, la seconda moglie e la figlia del primo matrimonio di Thomas. È in questa città costiera, in un luogo ben distante dalla cosmopolita Parigi — città dove era ambientato il dramma domestico dei protagonisti di “Amour” — che Haneke dileggia certa ricchezza decaduta, ultimo miraggio che ricorda una Francia — ma verrebbe da dire un’Europa — in grado di creare lavoro, prosperità sociale, benessere diffuso. 

 

Il regista, dopo gli ultimi due lungometraggi in cui seguiva fedelmente una linea del racconto in grado di accompagnare lo spettatore scena per scena, torna al suo consueto sadismo, verso il film stesso e verso chi, quel film, lo guarda. 

Per un’ora ci fa capire pochissimo, certe scene sono episodiche, scritte con poche battute e recitate sommessamente da ogni interprete. 

Una cosa, però, la capiamo da subito, da un tono generale, da un insieme di sguardi e di scambi verbali. Il regista flirta decisamente con la commedia, con il lato grottesco e ironico del dramma. 

Quando la realtà è troppo seria per poter essere affrontata con la dovuta attenzione, meglio ironizzarci sopra. Ma, tra un ghigno e l’altro, arrivano i fendenti allo stomaco: la ragazzina con l’ossessione per lo smartphone che la aiuta a filtrare il reale, il padre che scrive messaggi erotici all’amante dal computer che tiene in casa, il nonno che tenta il suicidio con una delle tante auto parcheggiate e inutilizzate nel garage della sua immensa dimora. 

 

Come in Amour, Haneke non trova altro modo per parlare della vita che farlo attraverso la morte. Una morte raccontata come una costante, che sta dappertutto, dentro la vita di tutti i giorni e dentro i rapporti umani, quelli familiari e quelli economici, e che, più che una pulsione o una tensione tragica, è vera e propria condizione ontologica. Lo sguardo nichilista del regista austriaco non si propone di dimostrare una tesi o di accumulare simboli: si estrinseca attraverso immagini che vanno analizzate, osservate e inseguite fino all’estremo. Come un oggetto non identificabile, perché capace di assumere tante, troppe forme, la morte non è mai rappresentata direttamente e, anzi, diventa una presenza incorporea. 

 

Tutto si scioglie nel finale, nello sfarzoso pranzo in riva al mare. A quel punto, quando alla porta del ristorante bussa un gruppo di rifugiati sgomberati dalla “Giungla” — l’enorme e tristemente noto campo profughi di Calais —, la realtà irrompe nella sceneggiata di famiglia. Lì, noi stessi, pubblico attonito che ha seguito senza un battito di ciglia questo odioso gruppo di personaggi completamente in balìa di circostanze che altro non sono se non difficoltà quotidiane, ritroviamo il bandolo della matassa. A quel punto si apre davanti a noi il senso dell’uomo contemporaneo secondo Haneke. Solo che, stavolta, di fronte all’ultima inquadratura, il regista ci lascia con una mezza smorfia sul volto. Siamo ben lontani da un sorriso, naturalmente. 

Ecco dunque il lieto fine promesso dal titolo: la farsa torna a diventare vita vera, anche se non si può certo parlare di un “… e vissero felici e contenti”. 

 

Fonti:

Giancarlo Usai, ondacinema.it 

Lorenzo Rossi, cineforum.it

Michael Haneke

Nasce a Monaco di Baviera nel 1942. Figlio di un’attrice e di un regista, studia filosofia, psicologia e teatro all’Università di Vienna. Dopo la laurea diviene critico cinematografico e poi regista televisivo. Il debutto nel mondo del cinema avviene nel 1989 con “Il settimo continente”. 

Il suo film “La pianista” ha vinto il Grand Prix Special della Giuria al Festival di Cannes 2001. 

Nel 2005 ha vinto il premio per la miglior regia al Festival di Cannes con “Niente da nascondere” (Caché). Nel 2009 si aggiudica la Palma d’oro per “Il nastro bianco”; nel 2012 ritorna a Cannes, vincendo per la seconda volta la Palma d’oro col film “Amour” con il quale si aggiudica anche il premio Oscar per il miglior film straniero.

Autore controcorrente, spiazzante per la violenza estrema dei suoi film e sorprendente per l’originalità delle storie che racconta. Affronta la categoria della famiglia borghese smontandone tutte le apparenze, sviscerandone in profondità la sensualità e i pregiudizi.