IL MIO GIARDINO PERSIANO
(Iran, Francia, Svezia / Drammatico-Commedia / 97')
Sabato 15 febbraio – ore 20.00
Domenica 16 febbraio – ore 16.00 e 18.00
La casa come luogo di ricordi ma ora anche come metafora di una prigione. La coppia di cineasti iraniani Maryam Moghaddam & Behtash Sanaeeha non è potuta essere alla 74° Berlinale dove Il mio giardino persiano è stato presentato in concorso (in originale Keyke mahboobe man) perché la polizia ha sequestrato i loro passaporti. In quella che si presenta come un’amara commedia sulla solitudine ci sono già dei segnali premonitori sul controllo del regime iraniano: la vicina di casa che bussa alla porta della protagonista per controllare se è sola in casa e soprattutto la scena in strada dove la polizia ha fermato delle ragazze che non stanno indossando correttamente l’hijab.
Recensione
Mahin, una donna vedova di circa 70 anni, vive da sola nel suo appartamento a Teheran dopo che la figlia si è trasferita alcuni anni prima in Europa. Un pomeriggio, dopo aver invitato le amiche a casa per un té, decide di rivitalizzare la sua esistenza. Così in un ristorante viene colpita dalla presenza di un tassista divorziato che mangia da solo. Lo invita a casa sua. I due mangiano, bevono, ballano ma poi la serata prende una piega inaspettata.Al secondo lungometraggio dopo Ballad of a White Cow (presentato anche quello in concorso alla Berlinale nel 2021), i due cineasti iraniani costruiscono un altro dolente e intenso ritratto al femminile dopo quello di Mina del film precedente. C’è solo la differenza che Mahin sembra una donna più libera e battagliera e si vede nella scena con cui difende una ragazza dagli agenti nel parco e le impedisce di essere arrestata. Il tono sembra apparentemente più leggero, soprattutto in quell’incontro di notte tra i due protagonisti in una improvvisa notte di sognatori. Così l’efficace della rappresentazione della solitudine (la scena della telefonata di Mahin con la figlia continuamente interrotta e poi improvvisamente troncata) lascia poi spazio in quel gioco seduttivo culminata nella scena in cui i due si fanno la doccia vestiti, probabilmente ennesima beffa nei confronti del proprio paese. Tutto però accade dentro quella casa e si avverte la presenza delle ombre ammonitrici degli interni del cinema di Panahi, come nel taxi di Taxi Teheran e la villa sul mare di Closed Curtain che vedeva tra gli attori anche Maryam Moghaddam. Come in quel film, non ci devono essere rumori sospetti e tutto deve avvenire nell’oscurità, finale compreso. Proprio per questo, proprio alla luce della condizione dei due cineasti, Il mio giardino persiano diventa un gesto politico ribelle nascosto dietro l’amara ironia dei frequenti cambi di tono del film che sono gestiti con un grande equilibrio e con una solidità di scrittura dove il tono da favola è solo una fuggevole illusione.
Simone Emiliani, www.sentieriselvggi.it