INVELLE
(Italia / 2023 / Animazione, Storico, Drammatico / 92')
02, 03, 04, 05 dicembre
Nel 1918 Zelinda è una bambina contadina con la madre in cielo e il padre in guerra. Le tocca smettere l’infanzia e indossare la casa, i fratelli, la stalla e le bestie. Vere o immaginate che fossero, Zelinda quelle cose ormai le ha viste e si è fatta una sua idea di come gira il mondo. Gira così velocemente che di colpo la sua storia diventa quella di un’altra. Nel 1943 Assunta è una bambina contadina che sta in equilibrio su una gamba, con la testa guarda il cielo e tiene il piede in guerra (un’altra!). Ma appena ha modo Assunta si cuce un vestito colorato, fa un saltello e hop! La guerra era tutto uno scherzo, o comunque adesso non c’è più. Nel 1978 Icaro è un bambino contadino che gira in tondo attorno al niente. È stato sognato tanti anni prima e deve fare e farà quello che non è stato possibile per sua madre e sua nonna. E per chi è venuto prima di loro. E prima ancora.
Recensione
“Dove sei stato tutto questo tempo?”, è la domanda che risuona in Invelle, e la risposta non può che essere il titolo stesso che in dialetto marchigiano – almeno quello d’uso sulle colline del pesarese – sta a significare in nessun luogo, da nessuna parte. Come può dopotutto “avere un posto” da occupare quella classe contadina che ha servito la propria terra, ne è stata depredata, è stata utilizzata come carne da macello in due guerre mondiali, per poi essere ridotta all’irrilevanza da un sistema politico, economico, e sociale che si è dato una postura democratica ma ha dimenticato da parte il popolo? “Se Invelle è un film politico, è ovviamente lo è, non è solo per ciò che rappresenta sullo schermo, quest’ode lirica al mondo contadino e operaio in cui lo stesso regista è cresciuto; la stessa edificazione artistica delle opere di Massi è concettualmente politica, sia per la volontà di muoversi in un territorio liminare all’interno delle dinamiche italiane come l’animazione, sia per rivendicare la fatica dell’animare, il lavoro sul disegno, sul carboncino, sul passo uno, sul rotoscopio, tutte tecniche che rifuggono la contemporaneità per riappropriarsi del rapporto fisico col disegno, e dunque della sua evoluzione materica che poi sarà tradotta nell’immateriale utopia cinematografica. Parte da una parola del proprio dialetto, Massi, ma poi dona ai doppiatori – le voci hanno un ruolo di raccordo e di senso particolarmente importante in un’opera rarefatta qual è Invelle – la libertà di utilizzare la propria di parlata, quella in cui si è cresciuti, quella in cui ognuno affonda le proprie radici. Invelle attraversa la Storia di una nazione in completo disfacimento/rifacimento, mandata in guerra non una ma ben due volte, sfiancata da pandemie – la Spagnola, ovviamente, di nuovo martoriata dallo stragismo fascista e di Stato, e poi defunta (forse) nel cadavere di Moro ritrovato nel bagagliaio della Renault 4. Massi torna alle proprie storie famigliari, e a quelle del piccolo nucleo umano in cui è nato e cresciuto, e ne rivendica l’urgenza rappresentativa, laddove i macro-movimenti della Storia l’hanno sempre sottomessa, schiacciata, resa invisibile. È un canto collettivo eppur privato quello che eleva Massi, un canto che si articola tra la morte per mano dello Stato di Sante Caserio e quella identica eppur dissimile di Federico García Lorca. C’è il dissenso verso il mondo che lo circonda del suicida Cesare Pavese, ma c’è anche l’amarezza insostenibile di chi la Resistenza contro i nazi-fascisti l’ha fatta, ha visto morire compagni e distrutte campagne e case, per poi risvegliarsi in un’Italia democratica a parole ma del tutto distante da quel sogno di rinnovamento che chi era andato sui monti con i fucili aveva ipotizzato.
Raffaele Meale, www.quinlan.it