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LA CORAZZATA POTËMKIN

V.O.S. Versione Originale con Sottotitoli

Venerdì 10 novembre
ore 19 e 21.30

È il film più famoso della storia del cinema e uno dei meno visti. Mai visto nella versione che qui proponiamo, restituito da un luminoso restauro allo splendore delle sue immagini. Un film che nella Russia del 1925 celebrava la rivolta dei marinai e della città di Odessa avvenuta nel 1905. 

Un film che “emergeva dal mare” con l’impeto creativo di un regista di ventisette anni, Sergej Ejzenštejn, destinato a portare la rivoluzione nel linguaggio cinematografico. 

La corazzata Potëmkin è un richiamo alla necessità della ribellione quando la giustizia e la dignità sono calpestate, un alto grido umanista in nome della fratellanza. 

 

Scrostato da decenni di polvere critica, sottratto al luogo comune dell’invettiva fantozziana, il capolavoro di Ejzenštejn può levare l’ancora verso le nuove generazioni. 

Perché questo è un film di una bellezza pazzesca!

Scheda tecnica

  • Titolo Originale

    Bronenosec Potëmkin

  • Regia

    Sergej Ejzenštejn

  • Paese, anno

    U.R.S.S.,1925

  • Genere

    Drammatico

  • Durata

    85'

  • Sceneggiatura

    Nina AgadžanovaŠutko, Sergej Ejzenštejn

  • Fotografia

    Eduard Tissé

  • Colonna sonora

    Edmund Meisel

  • Montaggio

    n.d.

  • Interpreti

    Aleksandr Antonov, Vladimir Barskij, Grigorij Aleksandrov, Aleksandr Levšin, Andrej Fajt, Marusov, Zavitok, Michail Gomorov, Ivan Bobrov

Recensione

Nel 1925 l’Unione Sovietica festeggiava il ventennale della sua prima rivoluzione. Era la prima celebrazione del nobile prologo alla rivoluzione d’Ottobre. In marzo venne avviato un ambizioso progetto cinematografico chiamato 1905, e il ventisettenne Sergej Ejzenštejn fu chiamato a dirigerlo. Si pensava a un racconto articolato e d’ampio respiro, che contenesse vari episodi dedicati agli avvenimenti del 1905; il tempo a disposizione era però davvero troppo esiguo, solo nove mesi complessivi di lavorazione: l’uscita del film era programmata per l’ultimo giorno dell’anno. 

(Peter von Bagh)

In poche settimane il giovane regista elaborò con la scrittrice armena Nina Agadžanova-Šutko uno scenario, un grande affresco in sei episodi che tracciava la storia dell’anno dalla guerra russo-giapponese all’insurrezione armata di Mosca. Più che di una vera sceneggiatura si trattava, come poi scrisse lo stesso Ejzenštejn, di “un grande quaderno d’appunti, un gigantesco riassunto” dov’erano annotati i risultati di ricerche accanite e minuziose su un’epoca. L’episodio della Potëmkin era delineato in dieci righe. Il 31 marzo Ejzenštejn e il suo operatore Eduard Tissé cominciarono a girare a Leningrado un primo episodio sullo sciopero generale rivoluzionario, ma il cattivo tempo costrinse la truppa cinematografica a spostarsi a sud, sulle rive solatie del Mar Nero. Intanto avevano compreso che l’impresa, come era prevista dallo scenario, era superiore alle loro forze e al tempo a disposizione: bisognava decidersi a scegliere uno dei sei episodi e fare il film su quello. Secondo i piani di lavorazione a Odessa si dovevano girare due brevi episodi: uno sciopero di portuali e le dimostrazioni dopo l’ammutinamento della Potëmkin; per questo avvenimento erano previste soltanto 42 delle 800 inquadrature della sceneggiatura. 

(Morando Morandini)

 

Le riprese iniziarono all’inizio della primavera, a Leningrado e non a Odessa. Nina Agadžanova-Šutko continuava intanto a scrivere la sceneggiatura. Il tempo era pessimo e le riprese accumularono subito molto ritardo. La scadenza si avvicinava giorno dopo giorno e la pressione su di noi aumentava sempre più. Alla fine gli esperti di Leningrado ci consigliarono di spostarci per qualche tempo a sud, dove avremmo completato le riprese di una delle sottotrame del film. Potevamo tornare a Leningrado appena il tempo fosse migliorato. Così ci spostammo a Odessa e ci sistemammo all’Hotel London. Fu là che Ejzenštejn scrisse la sceneggiatura che sarebbe diventata La corazzata Potëmkin. Non tornammo più a Leningrado.

(Grigorij Aleksandrov)

 

 Anche se in origine la rivolta del Potëmkin era solo un breve episodio dell’ampio progetto 1905, che non fu mai realizzato, non c’è il minimo dubbio che Ejzenštejn lo avrebbe comunque inserito nell’opera. Posso dirlo con sicurezza perché ricordo bene che una notte si presentò tutto agitato nell’appartamento che condividevamo. Aveva passato l’intera giornata alla Biblioteca Lenin e aveva trovato un numero del giornale francese “Illustration” con un articolo sulla rivolta e un disegno sulla famosa scena della scalinata di Odessa. Quello che successe su quella scalinata, o meglio quello che non successe – dato che la scena è storicamente assai ambigua – gli sembrava contenere in sé tutte le possibilità. Sentiva che un singolo episodio poteva dire ben di più che l’insieme di tutte le vicende. Così, appena sistemati a Odessa, la prima cosa che fece fu uscire e andare a vedere la scalinata con i propri occhi. Non fu deluso da quello che vide. 

(Maksim Štrauch)

 

 

La scalinata di Odessa diventò l’immagine che riassumeva la rivoluzione ‘incompiuta’ dell’anno 1905, e il massacro sulla scalinata diventò il teatro della crudeltà dove si traduceva in forma visiva tutta la necessità della rivolta, tutto il dolore e la sofferenza che il popolo dovette patire in quegli anni di oppressione. Anni dopo, nei suoi scritti, Ejzenštejn avrebbe riflettuto su come un elemento, un episodio, in quanto rappresentativo, possa riassumere tutto. La carne andata a male è un’immagine della situazione disumana in cui vivono operai e soldati: un dettaglio che comunica tutto il necessario. La scena sulla poppa della nave rappresenta in forma sintetica la crudeltà dello zarismo e la viltà degli opportunisti, mostrando lo zelo servile dei ‘compagni’ a cui è stato ordinato di umiliare gli altri. Il funerale del marinaio Vakulinčuk porta l’eco delle tante celebrazioni luttuose in onore dei defunti della rivoluzione. Nella sequenza della scalinata convergono ricordi della rivolta di Baku, della Domenica di sangue di San Pietroburgo, dell’eccidio e dell’incendio del teatro Tomsk. E alla fine, lo scivolare vittorioso della corazzata davanti alla flotta è il culmine della ‘tragedia ottimista’ che è La corazzata Potëmkin, e concentra in sé il senso della rivoluzione dell’anno 1905. 

(Peter von Bagh)

 

 

La Dodici Apostoli

 

A Sebastopoli, non lontano da Odessa, era ancorata la corazzata Dodici apostoli, gemella della Potëmkin, smantellata e adibita a deposito di mine. A bordo dell’arrugginita carcassa, non senza rischi (“Mine, mine, mine… tutto il nostro lavoro di ripresa si svolse all’insegna di questi temibili arnesi. Vietato fumare. Vietato correre. Vietato perfino restare sul ponte quando non era strettamente necessario”) furono girate le scene del cassero e dell’ammutinamento. Un’altra nave, l’incrociatore Komintern, fu usata per la scena della carne putrefatta e per gran parte delle altre sequenze per le quali era necessaria una nave in piena attività di servizio. La sequenza dell’incontro finale con la flotta fu costruita con immagini di vecchi cinegiornali d’attualità sulle manovre navali di una flotta straniera, probabilmente britannica; l’episodio dei preparativi al combattimento fu realizzato su una nave immobile: il movimento nasce dal montaggio. Il talento creativo di Ejzenštejn, l’efficienza tecnica di Tissé, l’entusiasmo di tutti permisero di girare uno dei capolavori del cinema muto in dodici settimane, tempo piuttosto breve se si tiene conto dell’alto margine di improvvisazione e della disorganizzazione produttiva. 

(Morando Morandini)

 

Per girare un film, la cui azione si svolge su una corazzata, bisognava evidentemente disporre di una corazzata. E per raccontare la storia di una corazzata del 1905 bisognava, altrettanto evidentemente, che la nostra corazzata fosse del tipo che esisteva nel 1905. Ma in venti anni – eravamo nell’estate del 1925 – la struttura delle nostre navi da guerra si era completamente trasformata. D’altra parte, in quell’estate 1925 non si trovava una corazzata tipo 1905 né nella flotta del Baltico né in quella del Mar Nero. In particolare sul Mar Nero, dove le navi da guerra del tipo vecchio erano state condotte da Wrangel e demolite per la maggior parte. L’incrociatore Komintern ondeggiava gioiosamente nella rada di Sebastopoli. Ma, ahimé, non era affatto la nave che ci serviva. Non aveva la larga poppa caratteristica, teatro del celebre dramma che volevamo ricreare. Quanto al Potëmkin, era stato demolito molti anni prima. […] Tuttavia, i nostri servizi informativi – una cine-esplorazione – ci dissero che se il Principe Potëmkin di Tauride non esisteva più, esisteva ancora il suo gemello, altrettanto potente e celebre, la corazzata Dodici Apostoli.

Incatenata, ormeggiata alla riva rocciosa, ancorata sul fondo sabbioso e invisibile del mare, la sua carcassa un tempo eroica oziava in una delle baie più nascoste di Sebastopoli. Là, nei profondi sotterranei che prolungano fin nelle viscere delle montagne le incrinature del golfo, giacevano centinaia e migliaia di mine.Ma non si vedevano più né torrette armate, né alberi, né bandiere, né plancia di comando sul dorso immenso di quella sonnolenta balena in sentinella. Il tempo aveva spazzato via tutto. Solo il suo ventre di ferro, che una serie di piani percorreva dall’alto al basso, risuonava del rumore dei vagoncini che portavano rotolando il pesante e mortale contenuto delle sue volte: mine, mine, mine. 

[…] Ma il destino voleva che la balena d’acciaio si svegliasse ancora una volta. Un’altra volta doveva muovere i fianchi. Un’altra volta doveva volgere il naso, che pareva per sempre appiccicato alla montagna, verso il largo. La corazzata era davanti a quella montagna rocciosa, parallela ad essa. Né di fianco, né di fronte si poteva in alcun modo riprenderla, senza che come sfondo non comparissero nell’obiettivo le pesanti scogliere verticali. Ma l’occhio penetrante e acuto dell’assistente alla regia Kriukov, che aveva scovato il grande vecchio di acciaio nel labirinto della rada di Sebastopoli, intravide la possibilità di risolvere anche quella difficoltà. Con una rotazione di novanta gradi della sua carcassa, la nave veniva a disporsi perpendicolarmente alla riva, in modo che – ripresa dal davanti – il fondale veniva a cadere proprio in una fessura tra due scogliere e la nave sembrava stagliarsi con tutta la sua larghezza su un fondale di puro cielo! In altre parole, la corazzata sembrava essere in alto mare.

(Sergej Ejzenštejn)

 

 

Le riprese

 

L’atmosfera durante le riprese sulla scalinata di Odessa fu così agitata che un turista francese capitato sul posto, André Beucler, pensava che fosse di nuovo scoppiata la guerra civile. Dovevano essere continuamente affrontati nuovi e complessi problemi tecnici. Uno di essi aveva a che fare con la nave. Il set era la nave Dodici Apostoli, ancorata appena al largo della città di Odessa. La cinepresa non poteva sbagliare direzione nemmeno d’un centimetro, o si sarebbe infranta l’illusione di stare in mare aperto. Listelli e travi di legno compensato vennero utilizzati per creare un’immagine della corazzata che corrispondesse esattamente a quelle dei documenti d’epoca. Ejzenštejn stesso disse che tanta esattezza aveva un peso simbolico: la riproduzione scenografica del passato faceva capire che si partiva dalla storia vera.

(Peter von Bagh)

 

 

La più famosa sequenza della storia del cinema, quella del massacro sulla scalinata, fu ripresa in una settimana: Ejzenštejn riprese personalmente la scena della carrozzella. tu costruito – fatto raro nel cinema russo di quel tempo – un carrello della lunghezza della scalinata; furono usate simultaneamente parecchie cineprese, tra cui la più leggera fu legata alla cintura di un assistente che, durante le riprese, correva, saltava, s’abbassava. Tutte le inquadrature della processione funebre furono completate in una mattina; l’intero dramma sul cassero fu filmato l’ultimo giorno. Le parti principali del film furono affidate agli aiutoregisti di Ejzenštejn che avevano fatto pratica di recitazione al teatro del Proletkult: A. Antonov (Vakulinciuk). Vladimir Barski (il capitano Golikov), Michail Gomarov (un marinaio), A. Levscin (un guardiamarina). Lo stesso Grigori Aleksandrov, primo degli aiutoregisti, interpretò la parte del comandante in seconda Ghi-liarovski; per il personaggio del medico con gli occhialetti a molla Ejzenštejn scelse all’ultimo momento il fuochista dell’albergo di Sebastopoli dove alloggiarono per qualche giorno, e per quello del pope un vecchio giardiniere. Per molti anni corse voce che fosse stato lo stesso Ejzenštejn a interpretare il pope; la smenti egli stesso spiegando come fosse nata: il vecchio doveva cadere all’indietro per una scala, ripreso a piombo dalla cinepresa; il regista lo sostituì per quella scena pericolosa. Mentre Ejzenštejn si truccava, fu scattata una fotografia che fu poi pubblicata da diversi giornali.

(Morando Morandini)

 

Una delle scene più emozionanti del film è la sequenza del porto: la nebbia mattutina, quasi un’immagine dell’alba della vera storia dell’umanità. Queste immagini di nebbia sul Mar Nero non erano previste dal progetto originale. Racconta Maksim Štrauch: “Una mattina ci svegliammo e dall’Hotel London, che non era lontano dalla scalinata e aveva una buona vista sul porto, non potevamo vedere altro che nebbia. Il mare, che non distava più di cento metri, era totalmente invisibile. Sarebbe stato assurdo continuare le riprese con un tempo simile, la visibilità era veramente ridotta al minimo. La scelta più intelligente sembrava quella di tornare a letto e recuperare il debito di sonno. Ma il direttore della fotografia Tissė insisteva che tornassimo a girare, e riuscì a convincere un riluttante Ejzenštejn. Insieme andarono al porto e girarono lo splendido episodio nel quale i marinai del Potëmkin piangono il loro compagno morto. La scena fu incomparabilmente più emozionante perché la nebbia diede il suo contributo alla tragica atmosfera del lutto”.

(Peter von Bagh)

 

 

La prima al Bol’soj

 

Il film, che dura un’ora e quindici minuti, venne montato in due settimane. Ejzenštejn e un assistente lavorarono giorno e notte, praticamente senza il tempo per dormire. La prima a Mosca fu una proiezione speciale e precedeva la vera prima per il pubblico, che doveva avere luogo il 31 dicembre. Avevamo passato gli ultimi giorni lavorando con l’assistente che freneticamente sistemava le didascalie. Delle didascalie a Ejzenštejn non interessava soltanto la forma dell’espressione ma anche la dimensione e lo stile dei caratteri, dei punti esclamativi e così via. Stavamo ancora lavorando la sera in cui il film doveva essere proiettato al Teatro Bol’šoj. Passai la serata guidando con la moto fra la stanza del montaggio e il teatro, portavo una bobina alla volta. Quando Ejzenštejn fu finalmente contento dell’ultima bobina, si sedette sul portapacchi della moto, con la bobina sotto il braccio. Non avevamo tempo da perdere perché sapevamo che la proiezione era già cominciata. Poi, in mezzo alla Piazza Rossa, a circa 500 metri dal Teatro Bol’šoj, la moto si ruppe. Facemmo l’ultimo pezzo correndo.

(Grigorij Aleksandrov)

 

 

Al Teatro Bol’šoj gli applausi crepitano negli emicicli dei corridoi… Dalla platea alla balconata, in ogni ordine di posti, via via che aumenta in me l’emozione, colgo avidamente le singole salve di applausi. 

Fino a che d’un tratto, come una scarica di mitragliatrice, non esplode la sala intera. E uno (è in campo la bandiera rossa). Due! I cannoni della corazzata sparano sullo stato maggiore dei generali, in risposta alle fucilazioni di Odessa. Continuo a girovagare nei corridoi deserti e concentrici. Non c’è nessuno. Perfino i custodi sono tutti dentro. Uno spettacolo eccezionale al Bol’šoj: è la prima volta che succede nella storia del teatro Bolshoi e del cinema. E adesso dovrebbe esserci la terza scarica di applausi. La corazzata Potëmkin passerà in mezzo alla squadra ammiraglia, sventolando vittoriosamente il vessillo della libertà.

E d’un tratto sento un sudorino freddo. Ogni altra emozione è svanita. Per la fretta, in sala di montaggio, abbiamo dimenticato di incollare l’ultima parte del film.

Ricordo: i pezzi di montaggio – l’incontro con la squadra – sono piccolissimi. Per impedire che volino via, che si mescolino tra loro, li appiccico con la saliva, poi li consegno alle montataci perché li incollino. Visiono la prima variante. Non va. La seconda. Va male.

Sì, me ne ricordo bene: la montatrice non ha avuto il tempo di incollare l’ultima variante, quella definitiva. Quella che è già nella bobina. L’ultimo rullo, lo capisco dall’ora e dalla musica, è già inserito! Come rimediare?

Corro come un ossesso negli emicicli dei corridoi che si fondono in una spirale, in un cavatappi, e, piombando giù per questi gironi, vorrei conficcarmi nelle cantine, nel suolo, nel nulla. Adesso ci sarà un’interruzione! I pezzetti di celluloide salteranno fuori dal proiettore, e il ritmo del finale sarà spezzato.

Invece avviene il miracolo! La pellicola arriva sino alla fine.

Non crediamo ai nostri occhi, quando più tardi, sul tavolo di montaggio, stacchiamo senza alcuno sforzo i minuscoli pezzi di pellicola che, tenuti insieme da una forza magica, sono passati, come un nastro unico, nel proiettore!

(Sergej Ejzenštejn)

 

Fonte: Il Cinema Ritrovato

Sergej Ejzenstejn

Nato in un’agiata famiglia di origine ebreo-tedesca per parte paterna e slava per parte materna, Ejzenštejn fu assai precoce nell’apprendimento delle lingue e nella lettura, ed eccezionalmente dotato per il disegno. Nel 1915 entrò nell’Istituto di ingegneria civile di San Pietroburgo (all’epoca Pietrogrado), dove aveva raggiunto la madre già da alcuni anni separata. Qui gli capitò di assistere, nel febbraio del 1917, alla messa in scena di Maskarad di M.J. Lermontov per la regia di V.E. Mejerchol′d: un incontro determinante sul cui significato sarebbe in seguito tornato molte volte nell’immenso corpus delle sue Memorie. Nel 1918, dopo aver passato alcuni mesi al fronte come allievo ufficiale, entrò nell’Armata rossa e fu impegnato nell’organizzazione di spettacoli teatrali itineranti lavorando, soprattutto come scenografo, nei ‘treni di agitazione’, uno dei luoghi in cui si rappresentavano azioni drammatiche tipiche del cosiddetto teatro di agitazione.

Nel 1920, a Mosca, aderì alla sezione teatrale del Proletkul′t (un gruppo dell’avanguardia attestato su posizioni radicali) di cui avrebbe assunto di lì a poco la direzione; contemporaneamente frequentava la scuola di teatro di Mejerchol′d ed entrava in contatto con Lev V. Kulešov e con i registi della FEKS (Fabrika Ekscentričeskogo Aktëra, Fabbrica dell’attore eccentrico). In questo contesto vanno collocate le sue prime esperienze teatrali autonome, caratterizzate dal furore iconoclasta tipico della ricerca teatrale che interpretò in chiave di intervento politico diretto la poetica del futurismo russo: Meksikanec (1921, Il messicano) e soprattutto Na vsjakogo mudreca dovol′no prostoty (1923, Anche il più saggio sbaglia). Quest’ultimo, in particolare, fu uno spettacolo decisivo: liberamente tratto da A.N. Ostrovskij, l’allestimento prevedeva, tra gli altri ‘numeri’, la proiezione di un breve filmato, Dnevnik Glumova (Il diario di Glumov). E. ha sempre indicato in questa esperienza teatrale la cellula germinale del suo pensiero estetico. […] Lo spettacolo teatrale successivo, Protivogazy (1923-24, Maschere antigas), allestito in un’autentica fabbrica, avrebbe convinto Ejzenštejn che solo il cinema poteva pienamente corrispondere a quella totale rigenerazione dello spazio drammaturgico che il giovane regista e teorico si era già risolutamente posto come l’obiettivo (epocale) da raggiungere. Si convinse, in particolare, che mentre il teatro non era in grado di esprimere compiutamente le esigenze di senso provenienti da una realtà in trasformazione, il cinema avrebbe potuto non solo raccogliere quelle esigenze, ma addirittura farsene suggerire i principi costruttivi essenziali: non i contenuti, ma la forma stessa.

 

(Pietro Montani)