L’ALBERO DEL VICINO
23, 24, 25 ottobre
In Islanda sono rare fondamentalmente due cose: il sole e gli alberi. Due rarità che non raramente risultano incompatibili. Quando il tuo vicino, sposato con un’ex modella dall’abbronzatura facile, ti chiede di sfrondare il tuo amato acero (o nel peggiore dei casi abbatterlo) quale sarà la tua reazione? Ma, soprattutto, sarai in grado di prevedere le conseguenze della tua risposta?
Scheda tecnica
Titolo Originale
Undir trénu
Regia
Hafsteinn Gunnar Sigurðsson
Paese, anno
Islanda,2018
Genere
Drammatico
Durata
89'
Sceneggiatura
Huldar Breiðfjörð, Hafsteinn Gunnar Sigurðsson
Fotografia
Monika Lenczewska
Colonna sonora
Daníel Bjarnason
Montaggio
Kristján Loðmfjörð
Interpreti
Steinþór Hróar Steinþórsson, Edda Björgvinsdóttir, Sigurður Sigurjónsson, Þorsteinn Bachmann, Selma Björnsdóttir
Recensione
Le coincidenze a volte possono essere rivelatrici e farci comprendere aspetti della realtà che fino a quel momento ci erano sfuggiti. Questo è senz’altro il caso dell’ultima opera dell’islandese Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, presentato nella sezione Orizzonti del festival del Cinema di Venezia 2017, la stessa sezione che ha ospitato L’insulto, del libanese Ziad Doueiri. Due film estremamente diversi ma che condividono lo stesso nucleo concettuale: le conseguenze catastrofiche generate da un evento apparentemente insignificante: l’insulto di un palestinese a un libanese nel caso de l’Insulto, la richiesta di potare un albero nel caso de L’albero del vicino. L’apparente incongruenza tra l’evento e le conseguenze scatenate da quest’ultimo, in realtà, nasconde un vuoto: la non conoscenza dell’Altro, delle sue vicissitudini passate. La riuscita dell’opera di Sigurðsson, così come nel caso di Doueiri, è strettamente legata alla capacità del regista di condurre lo spettatore oltre l’apparente insensatezza delle conseguenze di un piccolo evento e di rivelare, piuttosto, come tale esito sia quantomeno probabile. Questo cambio repentino, la possibilità di incontrare le ragioni di un agire insensato, a tratti grottesco, rivela implicitamente ciò che mancava allo spettatore all’inizio del film e ai protagonisti lungo l’intero lungometraggio: la capacità di comprendere le ragioni del Diverso. Fraintendimenti generati dall’incapacità di avere una relazione accogliente nei confronti di chi non appartiene alla stretta cerchia familiare. L’impossibilità di ascolare l’Altro genera ignoranza e con essa una lunga sequenza di pregiudizi, sospetti: la miccia sotterranea pronta alla deflagrazione. L’incapacità di comprendere le ragioni della rabbia altrui, le frustrazioni che l’hanno creata, generano nei protagonisti reazioni ulteriormente rabbiose. Una dinamica del “cane che si morde la coda” da cui non sembra esserci uscita.
L’intera vicenda si svolge nella periferia di Reykjavík. Un luogo grigio in cui l’assenza di luce (soprattutto quella naturale del sole) e di natura (non mancano solo gli alberi) è quantomai evidente. Un grigiore che sembra riflettere la tranquilla monotonia delle esistenze delle persone che abitano uno spazio molto diverso da ciò che si è soliti associare all’Islanda (prati, pecore, villaggi isolati). Un grigiore che, perlomeno nel caso dell’animo dei protagonisti del film, si rivelerà essere solo una patina molto sottile. Inga e Baldvin, una coppia di mezza età, hanno avuto recentemente un lutto familiare. Il loro figlio Atli è tornato a casa recentemente, cacciato dalla moglie. Una situazione problematica, certo, ma insufficiente a scatenare quella serie di reazioni e controreazioni che costituiscono il motore principale del film. Konrad e Eyborg, i loro vicini, sembrano passarsela meglio ma, anche nel loro caso, c’è un problema che diffonde nella cerchia familiare uno stato di tensione continuo, benzina in attesa di un innesco. La richiesta di sfrondare l’acero porta a galla le contraddizioni, le spaccature presenti non solo all’esterno ma anche all’interno delle mura domestiche. La paranoia e il risentimento di Inga, la rabbia di Atli, le frustrazioni di Eyborg, sembrano essere valvole di sfogo di una tensione interiore per loro insostenibile. Una soluzione, lo sfogo sull’Altro, che si tramuterà ben presto in un problema più grande di quello che avrebbe dovuto risolvere.
Il tutto si risolve in un climax irresistibile che dalla falsa cortesia vira nell’odio, fino all’ossessione. Una serie di dispetti e ripicche che non si esaurisce nel cinismo tipico della black comedy ma che fa riflettere lo spettatore sull’importanza di conoscere il vissuto dell’Altro, unica soluzione per costruire quel dialogo in grado di evitare una spirale di cattiveria senza fine.
Giaime Ernesto Pupin