LOVELESS
13, 14, 15 febbraio 2018
Boris e Zhenya stanno divorziando. Litigano di continuo mentre fanno visitare il loro appartamento in vendita. Entrambi stanno già pianificando il proprio futuro: Boris fa coppia con una giovane donna incinta e Zhenya frequenta un uomo benestante che sembra disposto a sposarla. Nessuno dei due sembra occuparsi di Aliocha, il loro figlio dodicenne, finché il ragazzo non scompare…
Scheda tecnica
Titolo Originale
Nelyubov
Regia
Andrey Zvyagintsev
Paese, anno
Russia, Francia,2017
Genere
Drammatico
Durata
128’
Sceneggiatura
Oleg Negin, Andrey Zvyagintsev
Fotografia
Mikhail Krichman
Colonna sonora
Evgueni, Sacha Galperine
Montaggio
Anna Mass
Interpreti
Alexey Rozin, Maryana Spivak, Matvey Novikov, Marina Vassilieva, Andris Keiss, Alexeï Fattev
Recensione
Iniziare dalla fine. Girare in tondo. Filmare gelidamente, raccontare per dire di una società sull’orlo del baratro, di un’umanità imbrigliata disperatamente e senza uscita nelle sue stesse dinamiche viziose. È sempre stato questo il cinema plumbeo e carico di simbolismo di Andrey Zvyagintsev. Ed è così anche questo quinto film dove si insegue per tutto il tempo un bambino scomparso la cui presenza, quando c’era, non era che un fastidio per tutti. Boris e Genia sono infatti una coppia che sta divorziando. Sono piccolo borghesi, con un dignitoso appartamento alla periferia di Mosca ma lo stanno vendendo perché la loro famiglia non esiste più. Si odiano, si insultano, entrambi già alle prese con una nuova vita. L’unica cosa che li lega ancora è la casa, messa in vendita, e il figlio dodicenne di cui nessuno dei due è intenzionato a occuparsi. Fino a quando il ragazzino scompare.
Quello raccontato da Zvyagintsev è un universo quasi distopico popolato da una massa di individui che si muovono con lo sguardo sempre fisso sul proprio telefono, in perenne inseguimento di una rivalsa, di un riscatto, di una parvenza di successo, di un’affermazione personale, di un selfie esistenziale. Ogni traccia di umanità però è completamente perduta.
Anche Loveless, come già gli altri film del regista russo, soffre certo della modalità ultra enunciativa e ipermetaforica che gli è propria, della sua necessità di spiegare sempre tutto, troppo. Ma resiste. Avanza infatti costruendo la tensione narrativa attraverso una serie di scene, di passaggi di dialogo, di intenzioni recitative, di dettagli, che sarebbero bastati per il tutto.
Come quando Aliosha decide di andarsene. Nel momento preciso in cui la porta del bagno si chiude rivelando la sua presenza fantasmatica tutto è già mostruosamente chiaro, definitivo, disperato. Tutto sta in quell’immagine del ragazzino che, confondendosi con le piastrelle del bagno, prende atto tra le lacrime di essere già tra le pareti di casa un bambino scomparso. Perfettamente cinematografico. Perfettamente bastante.
O come quando, in una notte che sembra dilatarsi all’infinito, nessuno dei genitori si preoccupa neanche per un istante che qualcuno si stia prendendo cura del figlio mentre loro passano la notte fuori casa. Una gestione del tempo della narrazione che, anche in questo caso, sarebbe bastata a fare il film.
La scomparsa di Alyosha diventa per Andrey Zvyagintsev una metafora per una Russia che non ama i propri figli, che li divora sull’altare di un’affermazione egoistica adulta e congelata. Il tempo appare fermo e morto come il paesaggio e i personaggi che si muovono geometricamente nello spazio: come la ricerca dei volontari che avviene sempre con movimenti organizzati e gerarchizzati, linee rette e parallele nello spazio vuoto, sia interno che esterno. Una nazione che vive sulle macerie del proprio passato. Emblematica la sequenza nel palazzo diroccato in mezzo al bosco, dove si trova il covo che Alyosha condivide con il suo amico. Le rovine del passato si protraggono con le notizie della radio o della televisione delle guerre in corso, sempre attraverso un schermo mediatico.
Vincitore del Premio della Giuria al 70° Festival di Cannes, Andrey Zvyagintsev riconferma la sua grandezza di autore con un’opera che continua nella narrazione del suo paese attraverso storie individuali, dove l’emozione dei temi affrontati sono messi in scena con uno sguardo cinico e spietato, in un connubio epifanico tra la tragicità dei contenuti e una forma scabra ed essenziale di grande eleganza.
Zvyagintsev non è uno cui interessa lavorare sulla suggestione o sulla sottigliezza e questo spinge il suo cinema verso una grevità che è diventata quasi un marchio e che affonda comunque profondamente le radici in un immaginario in cui il racconto del reale è, da sempre, inscindibilmente legato al simbolo.
Fonti:
Chiara Borroni www.cineforum.it
Antonio Pettierre www.ondacinema.it
Tomas Alfredson
Nato nel 1964, a ventidue anni va a vivere a Mosca dove si laurea presso il Dipartimento di recitazione dell’Università statale dell’arte teatrale. Lavora come attore indipendente in diversi progetti teatrali.
Nel 2000 debutta in tv come regista dei corti Busido, Obscure and Choice, e Black Room.
Il ritorno (2003), la sua prima opera cinematografica, gli fa vincere alla 60° Mostra del cinema di Venezia il Leone d’Oro per miglior film.
Successivamente dirige Izgnanie (2006), Elena (2011) e sfiora il capolavoro con Leviathan (2014). Loveless, premio della giuria al 70° festival di Cannes (2017) è il suo ultimo film.