MAIGRET
Giovedì 22 giugno, ore 21.30
Anfiteatro di Palazzo Toaldi Capra
via Pasubio, 52 – Schio (VI)
In caso di maltempo gli spettacoli saranno annullati.
Recensione
Una ragazza di provincia, giunta a Parigi piena di speranze, viene uccisa, e il commissario Maigret, che non conosce neppure l’identità della giovane, ha il compito di individuare il colpevole di quell’omicidio. Nel corso delle indagini il commissario, cui è stato impedito dal medico di fumare l’imprescindibile pipa per via di un problema non identificato ai polmoni, incontra un’altra ragazza di provincia che suscita in lui sentimenti di protezione, la cui vicenda verrà in qualche modo collegata a quella della sconosciuta uccisa. Saranno molti gli indizi da seguire, e porteranno non solo ad identificare il colpevole, ma anche a ricostruire il ritratto di un sottobosco ambiguo e predatorio nascosto dietro la sfavillante Ville Lumière.
Basato (molto liberamente) sul romanzo di Georges Simenon “Maigret e la giovane morta”, Maigret sembra un adattamento classico, al limite del convenzionale, ma può contare su tre grandi risorse portate in dote da altrettante figure maschili.
La prima è la presenza dietro la cinepresa di Patrice Leconte, che colora la narrazione della tenerezza e la malinconia che caratterizzano tutto il suo cinema, nonché di quella pietas che lo accomuna al leggendario commissario francese che “non giudica mai nessuno” e diffida dei giudici, pronti ad accontentarsi delle spiegazioni più ovvie. La seconda è la corpulenza di Gerard Depardieu, che regala al suo Maigret una gravitas fisica e morale, portando in dono la sua immagine pubblica di “peccatore” in affanno e regalando al commissario una dimensione crepuscolare. Infine, in filigrana, si intravvede la biografia tormentata di un altro “peccatore”, Georges Simenon, uomo di eccessi alimentari e sessuali, coprotagonista di una relazione ambigua con la figlia Marie-Jo sfociata nel suicidio della ragazza, poco più che ventenne.
A questa fecondazione incrociata fra identità maschili si aggiunge la caratteristica che con ogni probabilità ha contribuito all’enorme successo di pubblico che Maigret ha ottenuto oltralpe: l’evocazione visiva ed emotiva di una quintessenzialità francese fatta di quai, café chantant e fisarmoniche, rinvigorita dagli innesti della cultura belga di Simenon (deliziosa la citazione del celebre dipinto del conterraneo Magritte “Ceci n’est pas une pipe”). Questo Maigret inizia con una vestizione e mette a nudo un commissario, togliendogli la pipa e la possibilità di rimediare ad un dolore antico: un personaggio la cui iconica silhouette (con cappello) si staglia contro le brume parigine in forma tridimensionale, perché combina in sé lo chassis imponente di Depardieu, il sospiro sognante di Leconte, e la fallibilità umana di Simenon.
La regia si prende il suo tempo per dipanare una storia tutto sommato semplice, ma ricca di sottotesti e impreziosita da dialoghi letterari (che speriamo la traduzione italiana rispetterà), e si concede digressioni strazianti come il racconto del tappezziere di Vilnius che vede in ogni ragazza la propria figlia scomparsa (come forse lo stesso Simenon). Questo Maigret cerca di “scoprire la verità senza fare troppo male a nessuno”: un concetto utopistico simile a quello felliniano, il cui sogno di felicità era poter mentire senza causare ad alcuno sofferenza.
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