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MON CRIME. LA COLPEVOLE SONO IO

un film di François Ozon

Venerdì 11 agosto, ore 21.00

Anfiteatro di Palazzo Toaldi Capra
via Pasubio, 52 – Schio (VI)

In caso di maltempo gli spettacoli saranno annullati.

Recensione

Il soggetto del film è difatti un libero adattamento di una commedia parigina del 1934 di Georges Berr e Louis Verneuil che è stato scelto e rimaneggiato per renderlo pienamente in linea col mood femminista del 2023. La squattrinata attrice Madeleine Verdier (Nadia Tereszkiewicz) viene accusata dell’omicidio del potente produttore che l’aveva aggredita sessualmente promettendole un remunerato ruolo nella commedia finanziata. Gli indizi (il furto del portafoglio, la sparizione di un’ingente somma e la sua presenza nella lussuosa villa) giocano contro la ragazza ma la sua amica e coinquilina Pauline (Rebecca Marder), avvocatessa alle prime armi e alla canna del gas quanto lei, la difende in maniera spregiudicata contro le robuste accuse messe su dal giudice istruttore (Fabrice Luchini). Le ragazze infatti sfruttano il successo del caso mediatico che si è venuto a creare – oggi come allora un omicidio commesso da una bella donna solletica le fantasie perverse ed allo stesso tempo le paure del patriarcato – riuscendo a farsi assolvere pur avendo dichiarato falsamente di aver commesso il fatto.
La prima riflessione sulla natura arbitraria della Verità e sulla sua spettacolarizzazione è resa, in maniera forse fin troppo evidente, proprio dall’imputata che proclama la natura finzionale della deposizione e di tutte le aule di Giustizia – quanta distanza in questo senso dall’indagine vertiginosa compiuta da Alice Diop nel suo Saint Omer – col rifiuto di indossare un vestito viola durante la sua testimonianza perché, come noto, è il colore da evitare durante le prime teatrali.
Mon crime – La colpevole sono io fa dell’arguzia lubitschiana/wilderiana (quest’ultimo esplicitamente citato: le due amiche vanno al cinema a vedere Il seme cattivo) il sostrato che va sia omaggiato che colorato con qualche spruzzata di MeToo attraverso forse l’eccessiva consapevolezza, per il 1935, di cosa avrebbe significato per le donne il suffragio universale. Ecco allora che l’assenza di compassione per il produttore che forse ha avuto un ictus, “aggravato da un colpo di proiettile alla testa” nella battuta più divertente del film, corre sinistramente in maniera parallela alla morte di Jeffrey Epstein, per il quale le cronache hanno accettato con sollievo il suicidio in cella.
La scena più esplicativa e meglio riuscita proprio per la natura artefatta del confronto, compiuto su posizioni ciecamente barricadere, è la contrapposizione tra le due arringhe: quella compiuta dalla pubblica accusa titilla le paure del maschio alfa chiedendo una punizione esemplare per evitare che qualunque moglie, amante o sorella possa ribellarsi uccidendo i membri (rigorosamente tutti barbuti) della giuria; quella della difesa fa una chiamata alle armi, fisiche e verbali, a tutte le donne dato che è davvero il giunto di prendersi i diritti negati. Ma è uno dei pochi fuoco d’artificio veri in un film che si contenta di intontire lo spettatore con petardi continui. Così mentre Isabelle Huppert e Fabrice Luchini fanno a gara a chi fa più gazzarra attoriale François Ozon sembra pensare già alla prossima rutilante tappa.
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