STOP MAKING SENSE
(U.S.A. / 1984 / Musicale / 88’)
Martedì 17 giugno, ore 21.30
In occasione della Festa Europea della Musica
Anfiteatro di Palazzo Toaldi Capra
via Pasubio, 52 – Schio (VI)
In caso di maltempo gli spettacoli si svolgeranno
al 1° piano di Palazzo Toaldi Capra, in Sala Affreschi.
La programmazione potrebbe subire variazioni.
Recensione
“Andai a vedere il concerto dei Talking Heads…fui davvero impressionato da quanto erano maturati, sul piano dell’interpretazione. Rimasi stupefatto nel constatare come gli interpreti simili a statue che una volta conoscevo come Talking Heads si fossero trasformati in questi grandi professionisti dallo spirito libero…” Jonathan Demme
Ci sono molti modi per filmare un concerto live. Si può puntare sul backstage, sui preparativi della band, sulle attese e le paure dei singoli componenti. Si possono intervistare i protagonisti per cogliere l’adrenalina dell’evento. Oppure si può costruire una visione sulle reazioni del pubblico, zoomare sui fans in estasi, cogliere l’emozione di una folla in ascolto e che si muove all’unisono con il ritmo della musica. Jonathan Demme non fa niente di tutto questo e decide di puntare sulla performance dei Talking Heads sul palco, guidati da un David Byrne in stato di grazia. Con l’utilizzo di otto telecamere (sei macchine da presa, una macchina a mano e una proto-steadicam Panaglide) e la registrazione digitale del suono su 24 piste, sono compressi in 88 minuti le tre memorabili serate del concerto tenuto nel dicembre 1983 al Pantages Theater di Hollywood. La prima sorpresa arriva dai titoli di testa, creati dal cubano Pablo Ferro con il suo stile inconfondibile (richiamano quelli di Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick) con scritte nere sul pavimento bianco. Poi l’ombra di una chitarra e vediamo solo le scarpe bianche di David Byrne che si avvicinano al microfono: “Hi, I got a tape I want to play” dice posando un mangianastri a terra. Parte la base ritmica e nel pieno minimalismo di coreografia ed esibizione, inizia l’assolo di chitarra di Psycho Killer. I movimenti scomposti di Byrne nel finale del pezzo richiamano quelli di Jean Paul Belmondo nell’excipit di Fino all’ultimo respiro. Man mano che si succedono le canzoni (Heaven, Thank you for sending me an angel, Found a job) si aggiungono i vari componenti del gruppo: prima Tina Weymouth, poi Chris Frantz e infine Jerry Harrison mentre i tecnici continuano ad andare su e giù per il palco per allestire la coreografia. È con la sesta canzone, Burning Down the House, che la formazione si arricchisce di altri musicisti e vocalists che amplificano l’effetto di “Lyrical Dissonance” tipico del gruppo. La fotografia di Jordan Cronenweth (suo il magistrale lavoro per Blade Runner) gioca molto sui contrasti di luci ed ombre: l’esempio più evidente è nella canzone What a day that was in cui le fonti di illuminazione sono dal basso, creando un effetto maschera sui visi dei protagonisti. Anche se la matrice è pop-rock con una grossa componente funky, la musica dei Talking Heads si arricchisce di influenze africane (l’uso del bongo richiama ritmi tribali), di contaminazioni del teatro Kabuki, di frammenti gospel e country. Così il vestito di quattro taglie più grande indossato da David Byrne per la performance di Girlfriend is better è ispirato dal concetto del teatro Noh che tutto sul palco deve sembrare più grande, tranne la testa del cantante. Con il progredire del concerto i movimenti di Byrne si fanno più strutturati fino ad arrivare al ballo con il paralume che riproduce i movimenti di Fred Astaire con una scopa nel musical Sua altezza si sposa (1951) di Stanley Donen. Jonathan Demme va controcorrente rispetto alla moda dei video-clip del tempo: pochi tagli di montaggio, riprese molto lunghe tese a riprodurre interamente la performance degli artisti, regia in under-statement e rigorosa formalmente. Pur partendo dall’esempio di L’ultimo valzer di Martin Scorsese, Demme asciuga tutta la parte documentaristica e regala allo spettatore cinematografico una full immersion nelle prime file di un concerto/evento. Nietzsche diceva che senza musica la vita sarebbe un errore: quando partono le note di Take me to the river ce ne rendiamo conto e finalmente vediamo inquadrato il pubblico in una sorta di catarsi liberatoria. Èproprio il contrasto con l’inizio minimalista ad amplificare in maniera esponenziale l’ effetto empatico di una esibizione live tutta tesa a creare un legame invisibile con lo spettatore. Si, questo deve essere il posto, questo deve essere il modo di girare un film-concerto.
Fabio Fulfaro, www.sentieriselvaggi.it