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TAKARA. LA NOTTE CHE HO NUOTATO

di Kohei Igarashi e Damien Manivel (Giappone, Francia / 2017 / Drammatico / 79')

17, 18, 19 dicembre

Tra le montagne innevate del Giappone, ogni notte, un pescatore si reca al mercato del pesce del suo paese. Una notte, il suo figlioletto di 6 anni, Takara, viene svegliato dai suoi rumori, e non riesce proprio a rimettersi a dormire. Mentre il resto della famiglia dorme, il piccolo fa un disegno per quel papà che vede così poco, e lo mette nel suo zainetto. La mattina, ancora insonnolito, perde la strada per la scuola: un’occasione per una piccola avventura, e forse per consegnare quel disegno…

Scheda tecnica

  • Titolo Originale

    La nuit où j'ai nagé

  • Regia

    Damien Manivel, Igarashi Kohei

  • Paese, anno

    Francia, Giappone,2017

  • Genere

    Biografico

  • Durata

    128'

  • Sceneggiatura

    Damien Manivel, Igarashi Kohei

  • Fotografia

    Wataru Takahashi

  • Colonna sonora

    Jérôme Petit

  • Montaggio

    William Laboury

  • Interpreti

    Kogawa Takara, Kogawa Keiki, Kogawa Takashi, Kogawa Chisato

Recensione

Come neve al sole

Un film asciutto e silenzioso come un haiku. Invece dei tre versi, tre parti (il disegno, il mercato del pesce, il lungo sonno) completamente prive di dialoghi ma dense di rumori, di suoni, di gesti ostinati e impacciati, di partenze e ritorni. La poesia delle piccole cose di semplice gusto accompagnata dalle note della Primavera di Vivaldi per mitigare il grande freddo dell’inverno giapponese nella regione montana di Aomori. Damien Manivel (Un jeune poète, Le parc) e Kohei Igarashi (Hold your breath like a lover) uniscono le forze per proporre la favola di Takara Kogawa, un bambino di sei anni che decide di marinare la scuola per andare a consegnare un disegno al padre, impiegato al mercato del pesce.
Anche se i due registi hanno dichiarato di ispirarsi alla poetica di Chaplin e Keaton, lo stile prevalente è quello della macchina da presa fissa, spesso ad altezza tatami secondo la lezione di Ozu. Questo espediente grammaticale trasforma il mutismo della pellicola in riflessione pacata sul punto di vista di un piccolo esploratore che si affaccia davanti alle meraviglie del mondo guardando tutto come fosse la prima volta. Seguiamo la vestizione di Takara, il suo gesto avventato di togliersi un guanto per mangiare un mandarino, il suo stupore di fronte al bianco abbacinante della neve, agli uccelli appollaiati sui rami. La lentezza delle riprese è proporzionale a questa presa di coscienza, a questa registrazione primordiale della bellezza della natura. E alla veglia notturna sostenuta dall’ansia di ricongiungersi al genitore, subentra il lungo sonno della fatica di una ricerca spesso ostacolata dalla cecità del mondo degli adulti. Certo, ci sono i momenti più spensierati come quando Takara perde l’equilibrio lanciando palle di neve contro uno specchio stradale, quando esita più di un momento prima di attraversare un incrocio o quando cerca di fare pipì sotto lo sguardo indiscreto di un estraneo. La molla che spinge Takara è la ricostruzione di una figura paterna evanescente: mentre la neve scende copiosa, Takara prova in tutti i modi a crearsi un simulacro di padre prima con il disegno, poi sognando un mare dove nuotare, infine scattando fotografie nel buio della sua stanza. Ha solo sei anni ma ha già messo in moto un meccanismo di difesa per proteggersi dalla solitudine: il suo gesto ribelle costringe il padre a rivedere il proprio ruolo genitoriale.
Presentato con successo nella sezione Orizzonti della Mostra del cinema di Venezia nel 2017, distribuito dalla Tycoon Distribution, Takara – la notte che ho nuotato fonde insieme sensibilità europea e slow-cinema orientale riuscendo a fare emergere l’ invisibile dalla quotidianità. Nonostante i chiari riferimenti Truffautiani e le ascendenze nipponiche (su tutti il Masao de L’Estate di Kikujiro), l’opera di Manivel e Igarashi sembra guardare di più a certe rappresentazioni minimaliste del cinema di Abbas Kiarostami (Dov’è la casa del mio amico?) e Jafar Panahi (Il Palloncino Bianco) con la registrazione in presa diretta delle reazioni e delle emozioni dei piccoli attori.
In queste opere il viaggio del bambino non è soltanto un percorso di ricerca identitaria (su base istintuale e inconsapevole), ma rappresenta un momento di riflessione per gli adulti (spettatori e non) che riconoscono nel punto di vista infantile il loro paradiso perduto. E’ proprio in queste pause meditative, nei disegni abbozzati, nei silenzi assordanti, in questi haiku perfetti come cristalli di neve che ci rendiamo conto di essere morti crescendo.

Fabio Fulfaro sentieriselvaggi.it